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Ivan Basso Daily Blog

Casa Eolo: "Così costruiamo le nostre vittorie"

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Articolo di SportWeek, Fabrizo Salvio e foto di Chiara Mirelli
 
 
A Casa Eolo, beati loro, non timbrano il cartellino. "Qua si entra e si esce a tutte le ore proprio come da una casa vera e propria", sorride Francesco Caielli, addetto stampa della Eolo- Kometa, la squadra di Ivan Basso e Alberto Contador che il 22 maggio, alla sua prima partecipazione al Giro, ha vinto con Lorenzo Fortunato la tappa dello Zoncolan. La più affascinante e prestigiosa. 
 
Si entra e si esce perché qui dentro il ciclismo non è soltanto lavoro, ma innanzitutto passione. E vorrei vedere quando, come nel caso di Basso, hai passato in sella a una bicicletta trentotto dei tuoi quarantatré anni di vita, mettendo in bacheca due Giri d’Italia. Ecco perché, durante la pausa pranzo, il direttore dell’area sportiva del team invece di scendere in men- sa sale in bici e pedala sulle colline intorno a Besozzo, nel Varesotto, dove è il quartier generale della squadra, un capannone a due piani che a suo tempo fu la prima sede della Eolo, l’azienda di telecomunicazioni di Luca Spada da gennaio sponsor principale della squadra. "Luca è a sua volta uno sportivo praticante", spiega Basso. "Ha sempre fatto running, adesso esce in bici con me". 
 
 
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Al termine, una doccia veloce al piano terra, dove sono ubicati il magazzino, il laboratorio dei meccanici, la sala massaggi e la cucina, poi Basso, svestiti i panni del corridore, risale le scale che portano al piano superiore, quello degli uffici. Quello dove sta lui ha sulla porta una targhetta dal nome impegnativo: Zoncolan. Ma anche quelli della sala riunioni, dotata di un grande schermo per permettere le riunioni in videoconferenza ("Cuvignone", dal nome di una salita della zona) e della stanza attrezzata per i meeting (“Stelvio”) non sono da meno. "Sono stato uno scalatore, e le montagne rappresentano il momento più alto, anche in senso metaforico, di una corsa: la scelta dei nomi da assegnare ai nostri spazi è venuta naturale. E ha portato bene, vista la vittoria di Fortunato proprio sullo Zoncolan". 
 
Quel che è certo, è che "Casa Eolo non fa solo da base per la direzione organizzativa o logistica", spiega Basso, "ma sarà il punto di raduno della squadra prima delle corse. Ci siamo dati questa regola, di trovarci insieme un paio di giorni prima della partenza, come avviene per i ritiri pre-partita dei calciatori. Abbiamo un accordo con un hotel di Cittiglio per ospitare atleti e tecnici e potremo allenarci sulle nostre strade. Tra marzo e ottobre le condizioni meteo sono ideali". L’aria frizzante che si respira nei corridoi, assicurano qui, circola però da molto prima del successo di Lorenzo, che adesso si aggira tra l’enorme camion dove sono caricate le bici – una sorta di officina mobile sulle quali i meccanici effettuano gli ultimi ritocchi ai mezzi prima di affidarli ai corridori – e la sala massaggi. 
 
 
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Ed è proprio Basso, la passione di cui si diceva, a pomparla nei polmoni degli altri: i ciclisti, ma non soltanto. "La mia prima bici era azzurra. Me la regalò mio padre, che per andare in macelleria, dove lavorava, ogni giorno passava davanti a un negozio di biciclette. Io chiedevo sempre giochi a pedali. Tricicli, macchinette... qualsiasi cosa, purché potessi far girare le gambe. Quella azzurra fu la mia prima bici da corsa, arrivò che avevo 6 anni. Ed è anche la sola della mia collezione che non ho conservato: mamma la prestò a qualcuno, io non ho mai pensato di chiederle a chi. E adesso non posso più farlo, perché è morta". 
 
Si alza, chiama Fortunato, lo porta nel suo ufficio, chiude la porta. Escono dopo mezz’ora. "Mi è venuta un’idea che secondo me lo aiuterà a diventare ancora più forte. Ne abbiamo parlato, si è detto d’accordo con me. Questo è il mio lavoro. Team manager? Direttore sportivo? Faccio quello che serve, e mi piace farlo guardando in faccia i corridori. Mi siedo poco alla scrivania. Mi prendono in giro perché non sono digitale, ma è la mia fortuna: sono capace di tirare fuori il meglio dalle persone, ma non per email o whatsapp".
 
 

Passa Fortunato, e si ferma. "Avere al fianco uno come Basso, che ha vinto due Giri d’Italia, è oro. Alla mattina dello Zoncolan è stato lui a prendermi da parte e dirmi: “Fortu, tu oggi vai in fuga e vinci la tappa sullo Zoncolan”. Ho pensato: “Cavoli, se lo dice lui...”. E ci ho creduto. Pronti, via e mi metto a ruota del mio compagno di squadra Vincenzo Albanese. Dopo 10 chilometri, all’altezza di una rotatoria, quelli in testa danno un’accelerata, il gruppo si rompe, mi giro, c’è il vuoto e parto. Per un’ora non mi sono più voltato. È stata più faticosa quell’ora che la salita finale sullo Zoncolan". 
 
 
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E poi? "Ai piedi dello Zoncolan, dall’ammiraglia mi dicono  di stare attento a Mollema e Bennett, ma intanto è partito Tratnik. Allungo per andare a riprenderlo. Gli ultimi tre chilometri sono i più duri, spingo più che posso, Tratnik non c’è, improvviso una specie di cronoscalata fino in cima. Pedalo e non penso a niente. In quei momenti non hai tempo e neanche le forze, per pensare. Alzo la testa solo all’ultimo chilometro, vedo la cima della montagna e mi dico: devi spingere ancora. Non ho mai creduto di poter vincere. Solo a 200 metri dallo striscione ho capito che era fatta e ho messo su il 54 per improvvisare una volata. Dopo il traguardo mi hanno abbracciato massaggiatore, dottore, addetto stampa. Piangevano tutti, mentre io mi dicevo: “Cavoli, allora ce l’ho fatta”". E adesso, cosa rimane di questa vittoria? "La foto bella grande che mi ritrae con le braccia alzate sotto al traguardo. Al rientro a casa, la mia fidanzata Veronica me l’ha fatta trovare sopra al televisore". 
 
Basso si mangia il suo pupillo con gli occhi. "Mio erede? Non ci penso io e non deve pensarci lui. Il mio compito è dirgli le cose giuste per permettergli di crescere". Un compito reso più facile dal suo passato di corridore di alto livello, e che certamente gli viene più naturale assolvere in mezzo ad altri di un mestiere che non si può improvvisare. "A fine carriera mi resi conto che fino a quel momento avevo vissuto in una bolla, avendo un solo compito: vincere. Altro non dovevo fare e non dovevano arrivarmi problemi. Venivano fermati molto prima. Ero stato protetto da un cerchio magico di persone. Dopo, ti accorgi che la vita reale è un’altra. Devi spogliarti dei privilegi e andare a cercarli, quei problemi che fino ad allora ti erano stati evitati. E devi imparare a risolverli. Se avessi pensato di poter fare un nuovo mestiere grazie a quello che avevo appreso in sella a una bici, non ce l’avrei mai fatta". 
 
Dunque? "Ho incontrato gli allenatori di calcio per capire come si fa a gestire un gruppo: Mihajlovic, Montella, Pioli, Sacchi. Mihajlovic è un guerriero, uno che non lavora per soldi, ma perché ha il fuoco dentro. Intelligentissimo". Fatto questo? "Ho iniziato il mestiere di dirigente prima alla Tinkoff e dopo alla Trek. Insieme a Contador ho fondato una squadra giovanile, poi una professionistica, che oggi è la Eolo-Kometa. Ho viaggiato per due anni sul pullman della squadra, a contatto coi meccanici, lavando le bici e le ammiraglie. Non potevo dirigere una squadra di cinquanta persone senza partire dal basso. Alberto si occupa dello sviluppo tecnologico delle bici. Per tre anni siamo stati solo Kometa, un’azienda di Bormio che ci ha permesso di crescere. Poi abbiamo avuto bisogno di qualcuno che ci permettesse un ulteriore salto in avanti. Quel “qualcuno” si è rivelato Luca Spada, che ha seguito per un anno la squadra come tifoso prima di decidere di sostenerla economicamente anche perché è varesino come me e tiene molto alla valorizzazione del nostro territorio". 
 
 
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E adesso? "Adesso pensiamo alla nuova stagione puntando a ottenere il massimo a ogni gara per conquistarci l’invito alle grandi corse. Ripartiamo da un 30% di budget in più che verrà reinvestito, parte nel riconosci- mento economico ai corridori, ciascuno dei quali ha dato più di quel che ci si aspettava, e il restante nello sviluppo dell’area tecnica. Sono i dettagli a fare la differenza tra vittoria e sconfitta, e voglio che siano curati sempre di più". Un po’ come faceva lui da corridore: "Mi sono sempre applicato tantissimo: già a 8 anni mi appuntavo i chilometri, le ripetute, le salite di ogni allenamento. Il viale del cimitero di Cassano Magnago, dove abitavo, è lungo 500 metri: lo facevo avanti e indietro per sessanta minuti. Ogni volta che miglioravo il tempo finale, per me quello rappresentava il mio record dell’ora. Ho sempre avuto chiarissimo, fin dalle Elementari, quale mestiere volessi fare. Avevo i quaderni pieni della mia firma: facevo prove di autografo – Ivan Basso, Basso Ivan – pensando al giorno in cui sarei diventato un corridore famoso. A 15 anni scelsi il modo in cui avrei firmato per il resto della mia vita. Il primo autografo che ho chiesto fu a Moser, dopo il suo record dell’ora al Vigorelli. Per molto tempo provai a imitarne la grafia. Mi infilavo apposta nelle pozzanghEre per sporcarmi, perché nella mia fantasia le gambe imbrattate di fango mi facevano assomigliare ai corridori della Roubaix. Sognavo di diventare come loro, e sognare mi ha aiutato a diventare quello che sono". 
 
Il libro dei ricordi si apre su pagine precise: "La prima maglia rosa a Zoldo è stata un momento speciale. Un’altra maglia rosa che ricordo volentieri è quella conquistata sull’Aprica. Poi è una bella lotta tra lo Zoncolan e l’Arena di Verona nel 2010, quando si chiuse un cerchio di sofferenza personale, oltre che sportiva, aperto con la squalifica per doping di tre anni prima. Quella che rifarei volentieri è la tappa dello Stelvio in cui presi 52 minuti e arrivai che era quasi buio, al Giro del 2005". La squalifica, già. "Ho corso in un’epoca in cui l’ossessione per la vittoria mi ha portato in una direzione sbagliata. Se tornassi indietro, vorrei essere più forte di quella ossessione e, dunque, delle tentazioni, evitando di infilarmi in un casino come quello del 2006. Ma sono orgoglioso del corridore che ero stato fino a quel momento e di quello che sono tornato a essere dal 2008 fino alla fine. Nei due anni di stop misi insieme 80 mila km in bici e, mentre mi allenavo, ricordavo uno a uno i sacrifici fatti per diventare, senza scorciatoie, un vincente. Perché il ciclismo è uno sport di sacrifici, non puoi farlo per soldi o per l’ambizione di vincere. Già allacciarti le scarpe è un fastidio. E il pantalone, così aderente, uguale. Uscire con la temperatura a 40 gradi o sotto la pioggia: ci vuole passione". Si torna sempre a quella. 
 
 
 
 
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19/09/2021
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